Barbara
Raymondi
Le
bugie dei bravi ragazzi
Questo
libro è un'opera di fantasia. Nomi, soprannomi, personaggi, luoghi e
avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autrice e vengono
usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali,
fatti o luoghi è assolutamente casuale.
Ogni diritto è riservato.
Gli
spietati salgono sul treno
e
non ritornano mai più,
non
sono come noi, innamorati eroi,
noi
due che al binario ci diciamo addio.
Gli
spietati, Baustelle
E'
un mondo difficile, è vita intensa.
Felicità
a momenti e futuro incerto.
Il
fuoco e l'acqua, concerto e calma,
sonata
di vento.
E
nostra piccola vita
e
nostro grande cuore.
Me
cago en el amor, Tonino Carotone
Prima
Parte
1
«Sole?»
«Presente»
la ragazza alzò il braccio svogliatamente, con fare un po' fiacco.
«Ok,
allora iniziamo col briefing se ci siamo tutti».
Mio
Dio il briefing, ma dove siamo all'Onu? Sole si guardò attorno,
testa bassa, sconsolata, agitata, stanca, cercando comunque di
mantenere un certo contegno, di capire l'andazzo di quell'ufficio e
di scoprire la fauna umana con la quale avrebbe lavorato per qualche
giorno o addirittura per qualche settimana.
Si
sentiva stanca già alle cinque di pomeriggio e non perché avesse
lavorato in miniera fino a quell'ora, ma perché esausta di
affrontare l'ennesimo primo giorno lavorativo. Si trattava di
sondaggi telefonici, all'apparenza poteva sembrare quasi una mansione
dignitosa, non troppo invasiva per se stessa o per i campioni
telefonici da contattare.
«Sole?»
«Sì?»
«E'
la tua prima volta qui?» chiese la responsabile dopo aver spiegato a
tutti il loro compito.
«Sì»
«Hai
capito come funziona?»
«Sì,
più o meno credo di aver capito: chiamo qualcuno e gli propongo di
fare il sondaggio»
«Ok,
ci siamo. Ragazzi siate veloci e precisi. Cercate di non scrivere
messaggi e di non parlare tra di voi. Potete andare in bagno, ma
senza esagerare, cerchiamo di evitare le pause sigaretta, le pause
caffè e le pause chiacchiere che tanto state qui solo quattro ore.
Iniziate pure».
Quattro
ore lì dentro sembravano interminabili solo a pensarlo.
La
responsabile era una ragazza più giovane di Sole, dall'aspetto
glaciale, inflessibile e sicuro. Il lavoro consisteva nel fare il
maggior numero di telefonate per riuscire a terminare quanti più
sondaggi possibili. Da un plico di fotocopie prelevate da un elenco
telefonico di qualche città si sarebbe dovuto chiamare in ordine
alfabetico o sparso, a seconda dell'attitudine, dell'istinto o del
metodo lavorativo, quanti più contatti si riusciva.
«Ragazzi,
almeno venti sondaggi a testa stasera» sottolineò la responsabile
«ricordatevi che vi paghiamo all'ora, non a sondaggi, quindi non
approfittatevene di questo. Impegnatevi grazie».
Sole
iniziò la missione quotidiana: digitare un numero da un comune
telefono a tasti, aspettare tre squilli, non ottenere nessuna
risposta e giù la cornetta. Numero, tre squilli, nessuna risposta e
giù la cornetta. Numero, tre squilli, nessuna risposta e giù la
cornetta. Primo sintomo accusato: ansia da prestazione. Nessuno
sembrava volerle rispondere, mentre le altre ragazze chiacchieravano
capaci con sconosciuti accondiscendenti. Tutti i sondaggisti
reclutati guardavano un muro color crema stinto, erano separati tra
loro da pannelli bianchi e sparavano a raffica domande convulse lette
sullo schermo di un computer, sperando di segnare crocette col mouse
nel questionario a risposte multiple. Numero, tre squilli, nessuna
risposta, ma questa volta, mentre Sole stava per sbattere giù la
cornetta, qualcuno rispose con la più classica delle risposte
telefoniche: Pronto?
Dopo
un secondo di incertezza la ragazza partì:
«SìBuonaseraSignoraStiamoFacendoUnSondaggio»
recitò tutto d'un fiato. No grazie, fu la risposta secca e spietata.
Le
reazioni telefoniche alternative che si susseguirono furono: No.
No, chi vi ha dato il mio numero? No, avete finito di rompere le
palle? No, non compro niente. Secondo sintomo: nervoso allo stomaco e
voglia di controbattere con una vasta gamma di parolacce. Quando dopo
almeno venti tentativi qualche anima pia diede il consenso, la
ragazza, già preda della frustrazione più accanita, cercò solo di
essere rapida, chiara e gentile nonostante la ferocia nell'animo e la
lingua che si incespicava.
La
moltitudine delle persone che, mosse a pietà o afflitte da
solitudine centenaria, decideva di dedicare qualche minuto al
sondaggio dopo poche domande però perdeva entusiasmo; l'unica
conseguenza possibile era il temuto saluto d'addio. Una guerra
psicologica insostenibile, un terremoto per il sistema nervoso.
«Ehi»
le sussurrò qualcuno «Puoi imbrogliare»
«Cosa?»
«Sì,
non è che ci arrestano»
«Imbrogliare?»
«Metti
tu le risposte anche se non ti rispondono a tutte le domande, finisci
tu il questionario»
«Ma
se ci vedono? Se
ascoltano le telefonate?»
«Controllano
millecinquecento telefonate a sera secondo te?»
«Non
lo so. A campione magari?» continuò a bisbigliare con la concreta
paura di venire scoperta. In quei momenti asfittici Sole perdeva la
ragione, la lucidità. Nelle teste dei sondaggisti anche le
ipotetiche conseguenze più banali si ingigantivano a causa del
delirio che si instillava nelle loro menti offuscate.
«Ma
no, figurati»
«Ragazzi,
tutto bene lì?» li interruppe la responsabile.
Nessuno
dei due le rispose qualcosa di sensato, si limitarono solo a fissare
le fotocopie senza vedere davvero i minuscoli numeri di telefono. La
conversazione clandestina terminò in quell'istante. Le sembrò di
venire beccata a copiare dalla maestra delle elementari, reminescenza
di una sgradevolissima sensazione lontana secoli. La ragazza girò
appena la testa per assicurarsi che nessuno la stesse osservando e
iniziò a fingere di parlare al telefono con una signora. E cliccò.
Cliccò risposte false a seconda delle domande che poneva e delle
opinioni fittizie che si inventava, tra il terrore di venire scoperta
e la vergogna che la fissava dall'angolo dietro la fotocopiatrice. Si
rese conto di non aver mai fatto nulla di più patetico per
guadagnarsi sei
euro e quindici centesimi all'ora. O forse sì. In
un attimo di respiro, in cui tornò ad essere se stessa, si chiese a
chi fosse appartenuta la voce al dì là della paratia che le
consigliava imprudentemente di manipolare i risultati di una
fondamentale ricerca di mercato riguardante i detersivi. Le
ore trascorsero
interminabili, zeppe di nervosismo da rendere l'animo e l'espressione
facciale dei sondaggisti tra l'esausto e il disperato.
Erano diventati brutti, la disperazione aveva sfigurato i loro volti.
Quattro ore tanto angoscianti per loro, quanto inutili per
l'esistenza e la continuità del genere umano.
«Sono
le ventuno, potete terminare le telefonate» proclamò la
responsabile. «Com'è andata?» chiese, ma non ricevette alcuna
risposta. Raccolse i fogli dove i ragazzi avevano annotato a penna il
numero totale dei sondaggi portati a termine e fece a mente una
rapida media.
«Ok,
domani cerchiamo di far meglio. Buona serata a tutti».
Nessuno
fiatava, nessuno parlottava in maniera complice, nessuno sapeva che
dirsi. Come se una disfatta generale si fosse abbattuta sugli
intervistatori, come se si fossero macchiati di un'umiliazione senza
tempo. I sondaggisti si avviarono verso l'uscita dello studio in fila
e senza desideri, se non quello di non tornare mai più a fare quel
lavoro tanto pesante quanto mortificante. Ma si diceva sempre così,
poi i più deboli e i più menefreghisti tornavano sempre, per i
soldi, per quei sei euro e quindici centesimi all'ora. Sentirsi
incapace di eseguire un lavoro tanto elementare era stata una vera
mazzata morale per Sole, metteva a dura prova l'autostima che già le
risultava difficile da mantenere nelle situazioni di normale
amministrazione.
Fuori
dall'ufficio gli intervistatori si ritrovarono nel più classico dei
cerchi umani. Un cerchio di estranei accomunati solo dal decadimento
logico.
«Ma
sì freghiamocene, è solo un lavoro. Lo facciamo solo per i soldi,
no?» disse uno dei due maschi del gruppo, forse lo stesso tizio che
poco prima le aveva suggerito di imbrogliare. Sole annuì, non si
accese una sigaretta come fecero tre o quattro di loro, ma cominciò
a masticare nervosa una gomma alla menta glaciale. Le sigarette
costavano, avrebbero inciso troppo nel bilancio e non era il caso di
farsi tornare quel vizio dispendioso.
«Qualcuno
vuole bere qualcosa?» propose una ragazza a caso, una di cui nessuno
ricordava il nome.
«No
grazie, sennò perdo l'ultimo autobus e arrivo a casa alle undici»
rispose una signora con la permanente rilassata e una ricrescita
evidente. Se ne andarono tutti, stanchi e affamati.
Sole
mogia e nervosa si avviò verso la sua bicicletta, ma com'era
possibile non riuscire a portare a termine quei sondaggi? Perché
nessuno le rispondeva?
«Hai
imbrogliato? Ci sei riuscita?»
La
ragazza si girò e finalmente associò la voce al maschio giusto.
Molto carino viste le brutture che si trovavano in quei luoghi senza
speranza, dimenticati dal dio dei contributi ed evitati da chi poteva
permettersi di dire di no. «Qualcosa sì, ma non troppo. Per te non
è la prima volta qui, vero? Sei un veterano?»
«Veterano
no, ma ogni tanto quando chiamano dico di sì. E' una rottura di
palle, ma me ne frego. Non sono un sondaggista, lo faccio qualche
volta e basta»
«Sei
disperato anche tu? Per quello sei qui?»
«Non
sono sull'orlo del suicidio no, ma non ho un lavoro fisso. Ogni volta
dico che non tornerò più, ma.. tanto per tirare su qualcosa, per
dare una parvenza di normalità alla vita, per avere un alibi».
Sorrise
e aspirò dalla sigaretta soddisfatto e cosciente di qualcosa che
poteva capire solo lui: «Comunque non essere così giù, è solo un
lavoro di merda» ribadì.
«Sì
lo so, ma sono stanca di fare sempre le stesse cose inutili e
deprimenti»
«Sole,
giusto?»
La
ragazza annuì.
«Vuoi
uno spritz?»
Sole
mise le mani nella tasca posteriore dei jeans, era uscita di casa con
cinque euro: «No, grazie, non..»
«Devi
scappare anche tu? Perdi l'ultimo bus per Marte?»
«No,
non è quello, abito un po' più vicino, ma...»
«Offro
io naturalmente»
«No,
non è quello»
«Devi
andare a fare un altro lavoro sfigato o per stasera hai finito?»
«Ok,
va bene. Scusa io non mi ricordo mai i nomi, tu sei?»
«Io,
io sono.. Andrea» rispose distratto, sbirciando nervosamente il
cellulare. Parlarono per una buona mezz'ora dei sondaggi, delle
risposte telefoniche più assurde, dei colleghi, della capa e delle
precedenti esperienze lavorative. Entrambi vivevano in città, lui
ancora con i genitori e lei da sola in un piccolo appartamento a
dieci minuti di bicicletta da lì. La tensione si sciolse un poco, il
volto della ragazza tornò a essere più rilassato. Lui invece era
veramente molto, molto carino, pensò Sole fissando il ghiaccio che
si scioglieva nel bicchiere mentre lo ascoltava. Le sembrava
impossibile che le fosse piovuto dal cielo un incontro piacevole
quella sera.
«Senti
io adesso vado, la mia ragazza mi aspetta al semaforo. Domani
ti trovo?» le chiese.
«Credo
di sì».
Andrea,
assorto in qualche pensiero ignoto, si aprì una lattina di Redbull,
ne bevve un lungo sorso e salutò la ragazza con lo sguardo già
distante anni luce da lì. In
fondo cos'era accaduto? Solo che un ragazzo carino e simpatico le
aveva parlato per qualche porzione di tempo. Fece spallucce, si
diresse verso la bicicletta e tolse il lucchetto, altro evento
fortunato quella sera: non le avevano rubato il mezzo. Pedalò veloce
verso casa senza accendere i fanali, andando su è giù per i
marciapiedi e le piste ciclabili interrotte. Anche quella giornata
era finita per fortuna, ma non poteva continuare a perdere giorni
così, doveva decidersi a cambiare rotta, doveva fare qualcosa che
desse un senso a quella sua pallida e vacua esistenza. Da domani,
pensò, da domani si cambia.
L'indomani
Sole si ripresentò ai sondaggi con una maglietta più carina, i
jeans più nuovi e molto mascara nero sulle ciglia nonostante per ore
avrebbe solo fissato uno schermo e parlato al telefono con perfetti
sconosciuti arrabbiati con lei a prescindere dalle sue intenzioni.
Dopo
quattro estenuanti ore di delusioni, ire funeste e umiliazioni a
profusione di nuovo tutti gli intervistatori scesero le scale in fila
indiana e in silenzio, ritrovandosi ancora una volta in cerchio, più
sfatti, più nervosi, più fumatori e con una sondaggista in meno
rispetto al giorno prima. «Meno una» azzardò Sole con ironia
guardando Andrea, compagno di sondaggi falsificati.
Il
ragazzo le sorrise di rimando mentre gli altri allontanandosi
mugugnarono qualcosa sull'umidità, sulle interviste impossibili e
sulla magra frequenza degli autobus in fascia notturna.
«Spritz?»
«Solo
uno? Ok, ma offro io stasera»
«Ma
va, mi hanno pagato un lavoro che ho fatto tempo fa, possiamo
permetterci anche un tramezzino»
«Meglio
ancora» sorrise la ragazza guardandolo negli occhi, cercando di
sfruttare il potere del mascara extra chic&black, allungante e
incurvante. Dopo circa quaranta piacevolissimi minuti ad Andrea
arrivò il messaggio fatale che decretava per Sole la fine dei
festeggiamenti serali. Il rituale dello spritz continuò per tutta la
settimana lavorativa, tanto che al sabato alla ragazza mancò
abbastanza quell'incontro così piacevole. Si sentiva strana, nervosa
e impaziente che fosse già lunedì, ma lunedì sarebbe stato anche
l'ultimo giorno dei sondaggi. Le piaceva parlare con quel ragazzo, lo
trovava interessante, soprattutto rispetto alla media degli sfigati
che incontrava di solito. Lui sembrava provenire da un altro mondo,
il pianeta dove probabilmente tenevano nascosti i ragazzi carini e
brillanti.
Ultime
quattro ore di telefonate farcite di insulti e di dichiarazioni
d'odio, altra fila indiana silenziosa giù per le scale, conseguente
cerchio umano sempre più demoralizzato e conclusive proposte di
rivedersi senza un effettivo interesse.
«Senti
Andrea, non pensare male, ma mi lasci il tuo numero? Così in caso di
sondaggi ci sentiamo»
«Ti
lascio il numero, ma non sentiamoci solo per i sondaggi»
«Sai
come vanno queste cose. Vedrai che tra un po' di settimane faremo
finta di non vederci per strada, tipico di questa città»
«Ma
va. Però adesso devo andare» disse guardando l'orologio «c'è la
mia..»
«Sì,
la tua fidanzata che ti aspetta».
Andrea
se ne andò così, con un sorriso sincero, con la promessa di
ritrovarsi, con una lattina di liquido energetico in una mano e con
una sigaretta nell'altra. Sole lo guardò allontanarsi verso quel
maledetto semaforo. Non era riuscita a sbilanciarsi di più, era
stata solo se stessa e non era bastato a trattenerlo. Non pioveva e
non c'era la nebbia, quindi non fu nemmeno un addio con condizioni
atmosferiche ideali.
2
«Pliè,
pliè. Pancia in dentro. Dritte con la schiena, più dritte con la
schiena, giù con le spalle, le spalle! Il mento, su il mento».
Benedetta
non ce la faceva davvero più, aveva i crampi per la fame, i piedi
doloranti e la mente infuocata.
«Altri
cinque minuti e poi alla Pesa» ordinò l'insegnante di danza,
cattivissima e temutissima, con i capelli perennemente raccolti in un
perfetto chignon, il ventre piatto e lo sguardo crudele. Era
soprannominata da tutte le allieve: Signorina Rottermeier,
in segreto e in ricordo della famigerata istitutrice di Clara, amica
sfortunata di Heidi, la dolce bambina montanara.
«E'
giorno di Pesa?»
«Sì»
«Oddio,
ieri era il compleanno di mia mamma, ho mangiato il tiramisù»
«Il
tiramisù?»
«Ma
era un anno che non lo mangiavo, mi faceva tanta voglia» rispose la
ballerina coprendosi il volto con le mani per la disperazione.
«Preparati
allora» le dichiarò con gravità la compagna.
La
Pesa era la temutissima bilancia, il giorno di Pesa era il giorno del
giudizio settimanale per tutte le allieve della scuola di danza
classica più esclusiva della città. Benedetta cominciò a tremare
come una foglia, uno spietato rimprovero le sarebbe arrivato di
sicuro, inoltre, ancora una volta, rischiava di non poter partecipare
alle selezioni per lo stage estivo. Tutta colpa della sua fragilità,
della sua dannata debolezza: il cibo.
La
sera prima aveva ingurgitato una piccola fetta di tiramisù, si era
lasciata andare senza ricorrere ai soliti trucchetti, senza
vivisezionarlo in piccoli pezzi, senza nasconderlo nella spazzatura.
Ma non poteva permetterselo, non lei.
Erano
lontani i tempi in cui riusciva a digiunare per un giorno intero,
aveva decisamente perduto la sua rinomata determinazione. Che
stupida, che stupida, si ripeteva nella testa mentre avanzava in fila
verso la Pesa. Lo chignon ormai non le reggeva più, si stava
disfacendo come la sua vita, come il suo giro vita. Non poteva
concedersi di pesare quarantuno chili. Si asciugò il sudore sul viso
per tentare di eliminare qualche milligrammo. Le mani le tremavano,
il volto era sempre più pallido ed emaciato, gli occhi azzurro
spento gridavano pura paura. Poi la speranza improvvisa: alla Pesa
era rimasta la signorina Carla, quella buona, quella che se poteva
aiutava, toglieva grammi, copriva ritardi, non gridava orrori ed
errori all'intera Scuola di Danza quando qualcuna sbagliava un
accento, un passo.
«Dai
Benedetta. Tocca a te, sali». Per infonderle coraggio le poggiò
delicata una mano sulla schiena, la ballerina si ritrasse d'impulso,
non era abituata al contatto fisico con gli estranei. La signorina
Carla fissò la bilancia, il peso, picchiettò nervosa la penna sul
quaderno dove si annotavano i grammi e poi guardò impassibile
Benedetta.
«Avanti
la prossima. Dopo passa da me però» sussurrò alla ballerina.
«Un
attimo. Un attimo che mi perdo tutta la Pesa settimanale sennò».
La
signorina Carla cercò di agevolare l'uscita di scena di Benedetta
sospingendola con grazia, intimandole di andare a cambiarsi in
spogliatoio, e di corsa.
«Un
attimo, torna indietro».
La
ballerina si arrestò e guardò atterrita l'assistente che cercò con
un estremo colpo di coda di coprire la disonorevole colpa: «Abbiamo
già fatto con lei»
«Per
scrupolo, mi sembra più rotonda»
Rotonda.
Pesava in media quaranta chili per 1.60 di altezza, rotonda poteva
sembrare un'affermazione esagerata per tutto il resto del mondo.
«Sali
Benedetta, prego, è importante rispettare un certo rigore, lo sai».
La
ragazza iniziò a mordersi il labbro inferiore e a inspirare a
singhiozzo piccole bolle d'aria, non voleva piangere, non se lo
poteva permettere lì davanti a tutte. Le sue compagne la reputavano
una sfigata, una debole, l'insegnante un soggetto troppo fragile in
un ambiente tanto rigido, la mamma un delicato e complicato caso
clinico, nel vero senso della parola. Il gruppo di ballerine non
fiatava, si limitava solo a mantenere la posizione: testa in linea,
schiena dritta, pancia in dentro e busto allungato. Sembravano statue
di gesso anemiche, diafane, immobili e rigide, con i nervi
costantemente tesi. Apparivano belle e perfette, da lontano.
Benedetta salì sulla Pesa.
«Non
muoverti. Dopo sistema lo chignon. Quarantuno
chilogrammi. Quarantuno e due,
per l'esattezza» decretò l'insegnate, quasi offesa, sicuramente
disgustata. Benedetta inglobò le labbra.
«Mantieni
la posizione. Non è possibile, capisci? Vuoi fare lo stage la
prossima estate? Finalmente?».
Benedetta
avrebbe solo desiderato sparire, lo sguardo dell'insegnante sarebbe
stato insostenibile per chiunque, anche per chi avesse pesato i
vanagloriosi trentotto chili.
«Non
va bene così, lo sai, il tuo peso oscilla, continua a oscillare. Non
capisco se ti interessa la danza o vieni qui a perdere tempo. Non
tutte possono permettersi questo corso, ma molte vorrebbero farne
parte, magari ballerine più meritevoli di te. Mantieni la posizione,
testa in linea. Ti consiglio di riflettere e di prendere in
considerazione eventuali altri corsi più ludici. Latino americano,
danza moderna.. Serve disciplina, rigore. Adesso passa dalla
psicologa, ti aiuterà. Mantieni la posizione, spero di essere stata
chiara. Vai pure».
Nessuna
ballerina riprese a respirare.
Benedetta
si rifugiò nello spogliatoio ritrovandosi a tradimento di fronte
allo specchio: era rotonda in effetti ed era solo colpa sua. Doveva
diventare una ballerina, era il suo sogno, la sua unica alternativa.
Si
sfilò le scarpette rosa, si massaggiò i piedi maltrattati e
sanguinanti, si infilò i jeans e filò via alla velocità della
luce. Non aveva nessuna voglia di andare dalla psicologa, una signora
antipatica, amica della Rottermeier, che le consigliava lassativi e
diete a base di acqua calda e limone. Ma non poteva evitare la
seduta, lo studio era proprio affianco alla scuola e il giorno dopo
avrebbe dovuto consegnare il tagliandino di presenza all'insegnante.
Bussò
alla porta, con lo stomaco ancora contratto, convinta di dover
passare i prossimi cinquanta minuti ad ascoltare le potenzialità dei
purganti naturali e le virtù del limone in accoppiata con l'acqua
calda.
«Avanti»
acconsentì una voce maschile.
La
ragazza si destò dalla rassegnazione e controllò la targhetta sulla
porta, non aveva sbagliato piano o studio, ma la voce non
corrispondeva alla solita noiosa psicologa.
«Prego,
avanti» propose ancora la voce sconosciuta.
Benedetta
si fece coraggio, esausta e senza alcuna volontà varcò la soglia
dello studio.
«Buongiorno,
sono una allieva della Scuola di Danza, cercavo la psicologa» chiese
continuando a mantenere la posizione.
«Ciao,
la sostituisco per qualche tempo, spero non sia un problema per te,
vuoi accomodarti?».
Benedetta
si accomodò, contrasse i muscoli e raddrizzò la schiena.
«Sta
pure comoda, rilassati, sono Alberto, piacere» si presentò e le
porse la mano.
Benedetta,
senza entusiasmo, gli allungò la mano ossuta pronta a fingere di
interessarsi alla solita lezione sull'aspro succo dell'agrume giallo.
«Tu?»
«Cosa,
scusi?»
«Dicevo,
che puoi stare pure comoda e che sono Alberto, tu invece sei?»
«Io?»
«Sì,
con chi ho il piacere di parlare a vuoto?» le chiese mostrandole un
sorriso d'incoraggiamento.
«Io
sono Benedetta e sono qui perché l'insegnante di danza mi ci ha
mandato» rispose tutta d'un fiato, quindi con discreto interesse,
domandò: «Che è successo alla psicologa?»
«Si
è rotta una gamba, ne avrà per un bel po', due mesi credo. Come mai
l'insegnante ti ha mandato qui?».
Benedetta
dovette ammetterlo, non vedere quella donnetta le aveva fatto provare
una briciola di sollievo nel mezzo di quell'ennesima giornata da
dimenticare. «Non lo so» rispose di getto, poi si corresse: «Il
fatto è che sono ingrassata e devo capire se voglio davvero fare la
ballerina» ammise con amarezza, rivelando i suoi occhi azzurro
spento.
«Sei
ingrassata?» lo psicologo piegò la testa verso sinistra per
osservare meglio Benedetta: «Eri più magra di così? Quindi è un
bene se sei ingrassata, giusto?».
La
ballerina sgranò gli occhi e credette di non aver compreso bene la
domanda.
«No,
cioè, ho un problema col peso, non dovrei ingrassare, dovrei restare
entro i quaranta chilogrammi al massimo, ma sono quarantuno e due e
non è accettabile per una ballerina» spiegò con determinazione,
rammarico e delusione.
«Perché?»
«Come
perché?» rispose Benedetta con un filo di voce. Perché tutte
quelle domande? Perché invece non le parlava di purghe? Perché non
le consigliava di impegnarsi di più o di fare più addominali?
«Perché
non sarebbe accettabile quarantatré o cinquanta chili magari?»
proseguì lo psicologo. Lo chiese con estrema pacatezza per non
urtare la sensibilità ballerina, cominciava ad avvertire la
fragilità della ragazza, la chiusura e la timidezza che la
inchiodavano.
Benedetta
scuoteva la testa: si era mai vista una ballerina di danza classica
obesa?
«Qui
nella tua scheda c'è scritto che con la psicologa avevate iniziato a
parlare di diete e di prodotti naturali, è così?».
Lo
psicologo si grattò la testa con la punta della penna, continuò a
leggere in silenzio la scheda della ragazza attendendo senza fretta
una risposta. In sintesi si diceva che la ballerina aveva un disturbo
del comportamento alimentare, alternava da anni fasi di anoressia
nervosa con qualche caduta nella bulimia, ed
era già stata ricoverata in una clinica specializzata. Non era
ancora guarita, ma era in fase di miglioramento. Persistevano però
problemi nel relazionarsi con gli altri e nell'affrontare con tempra
la disciplina della danza. Nel frattempo Benedetta raccolse coraggio
e voce: «Con la dottoressa
parliamo
del succo di limone, fondamentalmente».
Lo
psicologo assunse un'aria interrogativa, mimò un sorriso per rendere
il tutto meno angosciante e assurdo e le chiese di spiegarsi meglio.
«Sì,
di come mi devo depurare e di come devo mangiare meglio» inspirò
rassegnazione col naso e continuò «e meno, in pratica».
Aggiustò
la posizione e constatò con mano esperta che il suo chignon
stava ormai inesorabilmente collassando su se stesso.
«Senti,
se ti va potremmo vederci ancora, così approfondiamo, parliamo un
po'»
«Di
cosa? Gliel'ha detto l'insegnante di farmi venire qui ancora? Dice
che c'è speranza per me?» chiese allarmata.
«Speranza?
Per cosa?». Lo psicologo era assolutamente fuori da ogni logica
ballerina, inoltre, era solo al suo secondo incarico di supplenza,
non era certo un veterano della materia.
Benedetta
rispose imbarazzata: «Forse non sono all'altezza della Scuola di
Danza, devo migliorare o...»
«Ok
senti, facciamo così, se vuoi ci vediamo tra una settimana così ci
ragioniamo su. Di solito mi occupo di ragazzi con problemi diversi
e...».
La
ballerina
recuperò la borsa poggiata a terra, lo guardò senza fiducia e
salutò in maniera educata. Poi, riportandosi ancora una volta lo
chignon in equilibrio se ne uscì con un'ultima, ma fondamentale
richiesta: «Mi servirebbe il tagliandino, potrebbe firmarlo per
favore?»
Lo
psicologo firmò il rettangolino di carta che attestava la presenza
nello studio e glielo porse senza obiezioni.
«Grazie
mille» gli disse rincuorata piegando il foglietto in due.
Camminando
verso casa provò a rilassare lo stomaco costretto dalla costante
morsa nervosa che la irrigidiva da tempo immemore, da quando aveva
cinque o sei anni. Quel nuovo psicologo non le aveva ordinato di
dimagrire, di spremere limoni o di impegnarsi maggiormente
nell'attività fisica; Benedetta si sentì quasi sollevata e non le
dispiacque affatto quella sensazione
quasi sconosciuta.
«Che
stai facendo papà?»
«Niente
Bene, sto guardando un po' di robe su Facebook»
«Cosa?»
gli chiese appoggiando i gomiti sulla scrivania.
«Le
solite cose che mettono gli altri: il cane che dorme, tizie in posa
da ragazze facili, posti fighi, foto di pizze, foto del ca...»
«Ti
è arrivato un messaggio»
«Che?»
«Sì,
lì vedi? C'è un messaggio.»
Il
padre si affrettò, fingendo ignoranza in materia, a uscire dal suo
profilo: «Non so, boh, sarà pubblicità»
«Che
nascondi?»
«Niente
Bene, che devo nascondere?» ribadì con una leggera sfumatura di
imbarazzo. «Com'è andata a danza? Hai mangiato qualcosa? Prendiamo
la pizza? Mi è venuta fame, a te?»
Benedetta
sollevò le spalle senza rispondere nulla, tanto erano sempre le
solite domande di routine.
«Non
lo diciamo alla mamma, è di là che guarda un telefilm per donne
frustrate»
«Shh
che ti sente!»
Baciò
la sua bambina sulla fronte e Benedetta lo abbracciò adorante, non
si sarebbe mai voluta staccare da lui, la sua unica fonte di amore
accecato e incondizionato. Si staccò quasi subito però, per non
fargli percepire il rilevante livello di magrezza.
«Ti
allontani eh, sei grande ormai per abbracciare il tuo papà. Quanti
ragazzi ti vengono dietro adesso? Tre? Quattro?»
«Che
ragazzi, nemmeno uno, non sono il tipo che piace ai ragazzi io»
«Certo
Bene, perché i ragazzi guardano quelle vestite da troiette, tu
invece sei troppo raffinata per loro»
«Ma
va, sono solo una sfigata che fa danza quattro ore al giorno, cinque
giorni su sette»
«Bene»
le prese il viso fra le mani «tu nemmeno lo sai quanto sei bella,
però adesso ci prendiamo la pizza, così mangi qualcosa e metti su
un chilo»
«Non
posso papà ti prego, poi a danza non hai idea di quanto mi
stressano, di quante parole mi dicono»
«Ti
stressano? Hai venticinque anni, che vuol dire che ti dicono parole?»
«Eh
se ingrasso, lo sai..» rispose rassegnata, sfuggendo dalle sue mani.
«Non
è che siete alla Scala o all'Opera, siete solo una scuola di danza
come tante, solo che è piena di fighette del centro che se la
tirano, con i genitori medici e avvocati che.. Va bene una
margherita, amore?»
Il
padre si innervosiva sempre quando ascoltava certi discorsi sulla
danza, sulla disciplina esagerata o, peggio ancora, sull'ossessione
del controllo sul peso. Benedetta sospirò riflettendo sulle calorie
della pizza, sui ragazzi inesistenti e su suo papà che era l'unica
persona che la faceva stare bene.
Alessandro,
il padre, invece lesse velocemente un messaggio arrivato da pochi
minuti nel cellulare. Pensò che non aveva voglia di rispondere, che
aveva fame, che Benedetta era dimagrita ancora e che una pizza,
comunque, ci stava sempre bene. Dopo aver mangiato uno spicchio di
pizza, dopo aver raccontato la giornata al papà o almeno la versione
di quello che si poteva raccontare senza farlo infastidire, Benedetta
si recò dalla mamma per la buonanotte. Le si sedette affianco sul
divano giusto un minuto, non voleva disturbarla, non voleva
confrontarsi con lei, sempre così imperturbabile e perfetta. «Ma
tuo papà ha ordinato la pizza?»
«Sì»
«Ma
gli hai detto che avevi già mangiato il tacchino e le verdure
bollite?»
«Sì»
«Ma
che testa ha? Quando maturerà? Crede ancora di essere un ragazzino.
Lo vedi? Fa il figo in giro con i suoi tatuaggi, con la moto, con le
sue T-shirt, con i suoi quarantaquattro
anni. Che ti ha detto?»
«Niente»
«Niente?
Avete parlato due ore di là. Sai che c'è lo stage con i russi
quest'estate, forse è la volta buona. Benedetta cerca solo di
mantenerti in forma, non devi dimagrire mi raccomando, ma devi
restare così, così sei perfetta»
«Mamma
ne ho mangiato solo una fetta e ho tolto la mozzarella»
La
madre le accarezzò il viso e le sorrise: «Non è quello, è che
arrivi stanca, appesantita. Vai a dormire adesso, buonanotte amore».
Benedetta
si ritirò in camera, finalmente anche quell'inutile e straziante
giornata era giunta al termine. Aveva solo venticinque
anni, ma se ne sentiva dieci per come la trattavano i genitori e
sessanta per quanta sofferenza fisica e morale aveva sopportato fino
a quel momento. Si guardò allo specchio: grassa per l'intera Scuola
di Danza, ma spigolosa e piatta per il resto del mondo profano. Aveva
lunghi capelli biondi naturali, grandi occhi azzurri color cielo
uggioso e una grazia che ricordava tempi antichi. Ma non si piaceva.
Così magra non piaceva ai ragazzi e se al contrario fosse ingrassata
non avrebbe più avuto chance per rimanere nella Scuola di Danza,
l'unico posto al mondo dove ancora l'accettavano, per quanto poco o
per quanto la disprezzassero. Appena spense la luce arrivarono i
soliti, snervanti e devastanti sensi di colpa: forse doveva vomitare
la pizza? Forse doveva sforzarsi e fare cinquanta addominali? Ma
perché poi si ostinava ad andare a lezione? Non le piaceva nemmeno
più, lo doveva ammettere con se stessa. Le sue compagne erano
quattro stecchini rinsecchiti con gli occhi appannati e tristi,
l'insegnante si credeva un'étoile e invece era solo una donna acida,
una fallita con i capelli perennemente raccolti in uno chignon,
lucido e rigido per trecentosessantacinque giorni all'anno.
L'indomani
l'avrebbe pesata ancora, visto l'insuccesso del giorno e ancora
l'avrebbe umiliata davanti a tutte. Le avrebbe chiesto di tirare in
dentro la pancia, di allungare il collo e di alzare il mento. Non
sarebbe mai diventata una ballerina professionista, inutile crederci
ancora. Il papà di sicuro ne sarebbe stato a dir poco sollevato, la
madre invece non avrebbe accettato facilmente quel fallimento. Era
lei lo scoglio più arduo da superare, la mandava a danza da
vent'anni, si era costruita un giro di amicizie attorno al mondo del
balletto, non le avrebbe permesso di mandare tutto all'aria per
un'ingrata debolezza.
Benedetta
non riusciva ad addormentarsi quella
notte con tutti quei pensieri in testa, con tutti quegli ostacoli da
affrontare: il caos e l'ansia le impedivano di mettere in ordine le
idee e di tranquillizzarsi. Provò a leggere un libro sull'arte
medioevale, ma se ne appassionò tanto che la stanchezza le passò
completamente. Si mise a contare fino a cinquanta, respirò a fondo
cinque volte e provò con varie tecniche di rilassamento, niente. Il
risultato fu disastroso: occhi sbarrati che fissavano il buio, gambe
che si agitavano per il nervoso e lo stomaco che bruciava per
l'agitazione.
L'unica
alternativa,
immediata ed efficace, era andare in bagno e vomitare in silenzio
senza farsi scoprire. Era la sua famigerata, e frequentata, ultima
spiaggia, solo in quel modo si sarebbe svuotata dai sensi di colpa e
dalle inquietudini che le bombardavano la testa senza sosta. A piedi
nudi, senza far rumore, leggiadra come solo una ballerina di danza
classica poteva essere, raggiunse la tazza, si raccolse i lunghi
capelli biondi e vomitò senza grazia la cena. Nessuno se ne accorse.
Contò solo fino a settanta prima di addormentarsi, vergognosa e
rasserenata, coprendosi con la mano la sua pancia inesistente.
3
«Ciao,
sono Andrea, vieni al mare oggi?»
«Andrea?
Al mare? Ma che ore sono?» chiese Sole avvolta nel buio, senza
sapere davvero se fossero le tre di notte o le undici di mattina.
«Sono
le 9.30 del mattino, il sole splende e io devo andare al mare per un
lavoro»
«Hai
trovato lavoro?»
«Ne
parliamo dopo. Ce la fai a essere pronta tra mezz'ora?»
«No»
«E
dai, che devi fare?»
Depilarmi
qualsiasi parte del corpo, pensò Sole.
«Mandami
l'indirizzo che ti passo a prendere verso le dieci, a dopo».
Sole
fissò lo schermo del cellulare, si sedette sul letto e si mise a
riflettere: che significava quella telefonata? Ma non c'era tempo per
una risposta razionale o per una meditazione approfondita, doveva
estirpare i peli dal suo corpo e l'operazione richiedeva la massima
concentrazione. Sbirciò
fuori dalla finestra, la giornate era magnifica, respirò un rivolo
di aria fresca e si guardò i piedi, doveva anche mettersi lo smalto.
Mancavano
solo nove minuti alle dieci e l'epilatore
elettrico lavorava senza tregua. Doccia veloce, stando attenta a non
bagnare i capelli e smalto nero applicato. Tre minuti alle dieci per
la decisione fondamentale che forse avrebbe decretato il risultato
della giornata: la scelta del costume. Svuotò sopra al letto la
borsa di tela contenente i bikini. Costume a fascia viola sopra e
slip nero. Fascia leggermente imbottita, la prima impressione era
quella che contava davvero. Jeans neri strettissimi, canottiera nera
e infradito dello stesso colore. Le dieci, anche le campane in
lontananza lo sottolineavano. Si truccò gli occhi castani con una
matita nera e abbondò col mascara fregandosene del caldo e del
sudore che probabilmente avrebbero sciolto senza pietà i suoi
abbellimenti.
Dieci
e sette, ultimi ritocchi. Sole si guardò allo specchio abbastanza
soddisfatta: per essersi svegliata solo da mezz'ora il risultato non
era dei più disastrosi. I capelli neri come la pece, dalle sfumature
quasi blu, erano raccolti in una treccia laterale, la frangia
tagliata a metà fronte sembrava rimanere piatta e il brufolo che le
era spuntato sul mento era stato abilmente coperto con un correttore.
Grazie a Dio Andrea non era puntuale. Dovevano
essere passati
almeno venti giorni da quel lunedì, il lunedì del presunto addio ai
sondaggi serali. Gli aveva scritto solamente una volta, c'era stato
uno scambio di messaggi carini, simpatici, arguti, ma poi nulla di
concreto e Sole decise di gettare la spugna, capitolo chiuso.
«Scendi?»
le chiese al telefono.
«Arrivo»
gli rispose con le chiavi in mano.
Il
cuore le batteva forte. Poteva essere un sintomo d'innamoramento?
Prese la borsa e chiuse la porta.
Andrea
la stava aspettando a cavallo di una moto: «La
devo portare a un amico che abita vicino al mare. Ho
pensato che magari ti andava di accompagnarmi»
«E'
una bella idea» e perché hai pensato a me? Si chiese Sole, ma le
uscì solo un misero: «Che moto è?»
«E'
una Triumph. Sali e resta attaccata» le suggerì passandole un casco
nero. Realizzò
solo in quell'istante che lo avrebbe potuto abbracciare per tutto il
tempo, che sarebbe stata appiccicata a lui per tutta la durata del
tragitto, che indossare infradito
in moto non era il massimo e che non aveva ancora preso il caffè
quella mattina. Per
trenta minuti si strinse a lui, cercando di mantenere un certo
contegno nella postura e di maledirlo solo mentalmente per la
velocità di crociera esagerata. Quando la moto si fermò la ragazza
aprì gli occhi: di fronte a lei si palesò il mare scintillante,
calmo e infinito. «Bellissimo» sospirò e annusò profondamente
l'aria densa di salsedine che le riportò alla mente sensazioni
piacevoli, ricordi profumati di sabbia e crema solare.
«Senti
io porto la moto al mio amico, tu mi aspetti in spiaggia? Ci metto
mezz'ora credo, più o meno, se tutto va bene»
«Se
tutto va bene?»
«Sì,
insomma, non credo di rimanere molto lì, ci vediamo tra un po'».
Sole
si avviò verso la spiaggia e decise di non dare importanza al fatto
che Andrea l'avesse mollata sul più bello, in fondo si trattava di
lavoro. Fece pochi passi e affondò i piedi nella sabbia calda e
soffice. Per qualche minuto restò seduta e immobile, assorta nei
suoi pensieri a fissare le onde, poi sbadigliò appagata, distante
dagli annunci di lavoro infruttuosi e frustranti.
Quando
si svegliò notò che accanto a lei vi era steso un telo verde, si
strofinò gli occhi e si guardò attorno, poi lo vide. Andrea era in
acqua e parlava al telefono con qualcuno. Sembrava un po' nervoso e
agitava le mani per aria. Qualche parola scavalcava le onde e
arrivava fino a riva, dove era distesa lei in ascolto. «Non
è stato semplice questa volta. No, non sono in città. Ok. Per oggi
è meglio così». Chissà,
magari stava litigando con la fidanzata, magari si stavano lasciando.
Magari frena la fantasia, si redarguì Sole.
Andrea
era sempre misterioso, impenetrabile e forse proprio per quel motivo
Sole ne era rimasta un bel po' affascinata. Senza tralasciare il
fatto che era molto carino e simpatico. La maledizione dei ragazzi
stronzi, l'aveva definita. Certo, lo conosceva da poco, non sapeva
nulla di lui a parte il fatto che aveva una ragazza, che era un
precario come lei e che ogni volta se ne andava sul più bello. E
chissà com'è la fidanzata, continuò a meditare Sole, di sicuro
bella, magari bionda, un po' misteriosa pure lei, di quelle un po'
dannate, di quelle irresistibili, di quelle a cui basta uno sguardo
per sedurre. E di certo con un lavoro figo, tipo stylist, fotografa
di moda o di servizi alternativi, reporter di guerra magari. E
invece, dove voglio andare io? Precaria, banale, senza particolari
attitudini. Con sto nome poi, Sole.
Lei
che invece voleva sparire nella notte scura.
«Ben
svegliata»
«Ben
tornato. Si sta bene qui, non c'è quasi nessuno, come l'hai trovato
questo posto?»
«E'
il mio ritiro speciale quando voglio starmene tranquillo, lontano da
tutti». Andrea sospirò e guardò in direzione del mare senza
vederlo davvero. Poi si girò verso la ragazza e sembrò notarla per
la prima volta quella mattina, le sorrise e si tolse gli occhiali da
sole rivelando due occhi così verdi che avrebbero fatto ribollire di
invidia il mare Adriatico. Sole sentì lo stomaco attorcigliarsi su
se stesso e dichiarare vendetta all'amore. Dopotutto, pensò, aveva
scelto di starsene tranquillo e lontano da tutti con lei, non con
un'altra.
«Posso
farti una domanda?»
«Vai»
le rispose da sdraiato.
«Come
torniamo a casa, a nuoto?»
«Siamo
appena arrivati e pensi già al ritorno?»
«Io
potrei stare qui tutta la vita, non ho niente da fare»
Andrea
sorrise e si accese una sigaretta: «Magari» le rispose.
E
poi iniziarono a parlare del passato, delle storie finite male e
delle amicizie in comune, ma solo quelle alla lontana.
«Posso
farti un'altra domanda?»
«Vai»
rispose Andrea.
«Perché
hai chiamato proprio me stamattina?»
«Gli
altri mi avevano detto di no»
Sole
si sentì avvampare di rabbia: «Ma sei proprio stronzo! Puoi anche
mentire, dire una bugia carina»
«Il
mondo è pieno di bugie, ne raccontiamo troppe»
La
ragazza girò lo sguardo dall'altra parte per nascondere la
delusione, inoltre si era imposta di trovare una frase ad effetto per
spegnere la presunzione di quel moro dagli occhi verdi, ma ancora
prima di mettere insieme due parole di senso compiuto si sentì
toccare un braccio: «Ma non è vero, ti pare?»
Sole
sorrise senza voltarsi, sollevata e rincretinita.
«E'
che sei il primo nome della rubrica e mi hai detto di sì subito»
«Ma
sei proprio stronzo allora!».
Prese
la bottiglietta d'acqua naturale e cercò di annaffiarlo dal suo
posto con scarsi risultati. Lui le afferrò i polsi e la sollevò di
peso, se la mise sulle spalle come un sacco di patate e la gettò in
acqua per vendicarsi. Quando la ragazza riemerse entrambi scoppiarono
a ridere, contenti di essere lì in quel momento, senza stress, senza
obblighi sociali, senza persone sgradite attorno. E poi lei guardò
adorante lui senza accorgersene, senza filtri: da così vicino, in
costume, con i capelli bagnati e le ciglia a mazzetti, un po'
abbronzato e abbagliante per il riflesso del sole sulla pelle bagnata
era bello da matti. Dunque lei non poté far altro che chiudere gli
occhi e aspettare che il fato si impossessasse dei loro gesti e delle
loro esistenze. Ma l'unica cosa le riuscì di fare fu di starnutire
lì in mezzo al mare immenso, davanti al suo immaginario amore
ancestrale. Se anche ci fosse stata una possibilità su due di
baciarsi, Sole se la giocò così. Lui
rise ancora senza trattenersi e si tuffò verso l'orizzonte infinito
come uno stronzo di delfino ammaestrato. Lei tornò a riva, calciando
le onde e maledicendo la salsedine: «Che sfiga» brontolò.
Erano
le sei di sera ormai, l'ora più piacevole per stare in spiaggia, i
due amici chiacchieravano ancora sorseggiando una birra chiara e
mangiando patatine fritte dal sacchetto. «Senti, che dici ritorniamo
a casa? L'autobus dovrebbe passare tra un quarto d'ora, ho
controllato»
Sole
annuì, cercò un cardigan di cotone color corda all'interno della
borsa e lo indossò, per quanto volesse continuare a stare mezza nuda
per sparare le ultime cartucce di sensualità, la brezza di giugno e
la pelle arrossata glielo impedivano. Il
ritorno fu più silenzioso
del previsto tanto che la ragazza si addormentò, casualmente, sulla
spalla di Andrea indaffarato a scrivere messaggi col cellulare;
messaggi che lei non riuscì a decifrare dal suo posto privilegiato
prima di chiudere gli occhi e di rassegnarsi a vivere nell'ignoranza.
Alla
stazione delle corriere si salutarono con due bacetti sulle guance,
promettendosi di vedersi ancora e di sentirsi presto: ancora una
volta quel commiato poteva sembrare un altro classico e scontato
addio. Sole restò ferma ad osservarlo mentre si allontanava, lui non
si voltò per salutarla ancora o per guardarla un'ultima volta.
Queste cose le fanno le ragazze pensò, i maschi non si girano quasi
mai, noi vogliamo accaparrarci anche l'ultimo istante, ma per i
maschi un ciao è solo un ciao. Fece spallucce e si mise in bocca un
chewingum alla menta. Si incamminò verso casa con le caviglie
sporche di sabbia tra la gente che aspettava il bus dopo una lunga
giornata di lavoro. Si abbottonò il cardigan e incrociò le braccia
sopra allo stomaco, il disagio, la vergogna e la rassegnazione di
vivere una vita diversa dagli altri la accompagnarono fino a letto
quella sera. Comunque, alla fine, Andrea non aveva detto perché
aveva chiamato proprio lei per la gita al mare e questo dubbio fu il
suo ultimo pensiero della giornata prima di addormentarsi.
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