lunedì 30 marzo 2020

Anteprima Le bugie dei bravi ragazzi





Barbara Raymondi




Le bugie dei bravi ragazzi








Questo libro è un'opera di fantasia. Nomi, soprannomi, personaggi, luoghi e avvenimenti sono frutto dell'immaginazione dell'autrice e vengono usati in maniera fittizia. Qualsiasi somiglianza con persone reali, fatti o luoghi è assolutamente casuale.
Ogni diritto è riservato.




Gli spietati salgono sul treno
e non ritornano mai più,
non sono come noi, innamorati eroi,
noi due che al binario ci diciamo addio.
Gli spietati, Baustelle



E' un mondo difficile, è vita intensa.
Felicità a momenti e futuro incerto.
Il fuoco e l'acqua, concerto e calma,
sonata di vento.
E nostra piccola vita
e nostro grande cuore.
Me cago en el amor, Tonino Carotone




Prima Parte

1

«Sole?»
«Presente» la ragazza alzò il braccio svogliatamente, con fare un po' fiacco.
«Ok, allora iniziamo col briefing se ci siamo tutti».
Mio Dio il briefing, ma dove siamo all'Onu? Sole si guardò attorno, testa bassa, sconsolata, agitata, stanca, cercando comunque di mantenere un certo contegno, di capire l'andazzo di quell'ufficio e di scoprire la fauna umana con la quale avrebbe lavorato per qualche giorno o addirittura per qualche settimana.
Si sentiva stanca già alle cinque di pomeriggio e non perché avesse lavorato in miniera fino a quell'ora, ma perché esausta di affrontare l'ennesimo primo giorno lavorativo. Si trattava di sondaggi telefonici, all'apparenza poteva sembrare quasi una mansione dignitosa, non troppo invasiva per se stessa o per i campioni telefonici da contattare.
«Sole?»
«Sì?»
«E' la tua prima volta qui?» chiese la responsabile dopo aver spiegato a tutti il loro compito.
«Sì»
«Hai capito come funziona?»
«Sì, più o meno credo di aver capito: chiamo qualcuno e gli propongo di fare il sondaggio»
«Ok, ci siamo. Ragazzi siate veloci e precisi. Cercate di non scrivere messaggi e di non parlare tra di voi. Potete andare in bagno, ma senza esagerare, cerchiamo di evitare le pause sigaretta, le pause caffè e le pause chiacchiere che tanto state qui solo quattro ore. Iniziate pure».
Quattro ore lì dentro sembravano interminabili solo a pensarlo.
La responsabile era una ragazza più giovane di Sole, dall'aspetto glaciale, inflessibile e sicuro. Il lavoro consisteva nel fare il maggior numero di telefonate per riuscire a terminare quanti più sondaggi possibili. Da un plico di fotocopie prelevate da un elenco telefonico di qualche città si sarebbe dovuto chiamare in ordine alfabetico o sparso, a seconda dell'attitudine, dell'istinto o del metodo lavorativo, quanti più contatti si riusciva.
«Ragazzi, almeno venti sondaggi a testa stasera» sottolineò la responsabile «ricordatevi che vi paghiamo all'ora, non a sondaggi, quindi non approfittatevene di questo. Impegnatevi grazie».
Sole iniziò la missione quotidiana: digitare un numero da un comune telefono a tasti, aspettare tre squilli, non ottenere nessuna risposta e giù la cornetta. Numero, tre squilli, nessuna risposta e giù la cornetta. Numero, tre squilli, nessuna risposta e giù la cornetta. Primo sintomo accusato: ansia da prestazione. Nessuno sembrava volerle rispondere, mentre le altre ragazze chiacchieravano capaci con sconosciuti accondiscendenti. Tutti i sondaggisti reclutati guardavano un muro color crema stinto, erano separati tra loro da pannelli bianchi e sparavano a raffica domande convulse lette sullo schermo di un computer, sperando di segnare crocette col mouse nel questionario a risposte multiple. Numero, tre squilli, nessuna risposta, ma questa volta, mentre Sole stava per sbattere giù la cornetta, qualcuno rispose con la più classica delle risposte telefoniche: Pronto?
Dopo un secondo di incertezza la ragazza partì:
«SìBuonaseraSignoraStiamoFacendoUnSondaggio» recitò tutto d'un fiato. No grazie, fu la risposta secca e spietata.
Le reazioni telefoniche alternative che si susseguirono furono: No. No, chi vi ha dato il mio numero? No, avete finito di rompere le palle? No, non compro niente. Secondo sintomo: nervoso allo stomaco e voglia di controbattere con una vasta gamma di parolacce. Quando dopo almeno venti tentativi qualche anima pia diede il consenso, la ragazza, già preda della frustrazione più accanita, cercò solo di essere rapida, chiara e gentile nonostante la ferocia nell'animo e la lingua che si incespicava.
La moltitudine delle persone che, mosse a pietà o afflitte da solitudine centenaria, decideva di dedicare qualche minuto al sondaggio dopo poche domande però perdeva entusiasmo; l'unica conseguenza possibile era il temuto saluto d'addio. Una guerra psicologica insostenibile, un terremoto per il sistema nervoso.
«Ehi» le sussurrò qualcuno «Puoi imbrogliare»
«Cosa?»
«Sì, non è che ci arrestano»
«Imbrogliare?»
«Metti tu le risposte anche se non ti rispondono a tutte le domande, finisci tu il questionario»
«Ma se ci vedono? Se
ascoltano le telefonate?»
«Controllano millecinquecento telefonate a sera secondo te?»
«Non lo so. A campione magari?» continuò a bisbigliare con la concreta paura di venire scoperta. In quei momenti asfittici Sole perdeva la ragione, la lucidità. Nelle teste dei sondaggisti anche le ipotetiche conseguenze più banali si ingigantivano a causa del delirio che si instillava nelle loro menti offuscate.
«Ma no, figurati»
«Ragazzi, tutto bene lì?» li interruppe la responsabile.
Nessuno dei due le rispose qualcosa di sensato, si limitarono solo a fissare le fotocopie senza vedere davvero i minuscoli numeri di telefono. La conversazione clandestina terminò in quell'istante. Le sembrò di venire beccata a copiare dalla maestra delle elementari, reminescenza di una sgradevolissima sensazione lontana secoli. La ragazza girò appena la testa per assicurarsi che nessuno la stesse osservando e iniziò a fingere di parlare al telefono con una signora. E cliccò. Cliccò risposte false a seconda delle domande che poneva e delle opinioni fittizie che si inventava, tra il terrore di venire scoperta e la vergogna che la fissava dall'angolo dietro la fotocopiatrice. Si rese conto di non aver mai fatto nulla di più patetico per guadagnarsi sei euro e quindici centesimi all'ora. O forse sì. In un attimo di respiro, in cui tornò ad essere se stessa, si chiese a chi fosse appartenuta la voce al dì là della paratia che le consigliava imprudentemente di manipolare i risultati di una fondamentale ricerca di mercato riguardante i detersivi. Le ore trascorsero interminabili, zeppe di nervosismo da rendere l'animo e l'espressione facciale dei sondaggisti tra l'esausto e il disperato. Erano diventati brutti, la disperazione aveva sfigurato i loro volti. Quattro ore tanto angoscianti per loro, quanto inutili per l'esistenza e la continuità del genere umano.
«Sono le ventuno, potete terminare le telefonate» proclamò la responsabile. «Com'è andata?» chiese, ma non ricevette alcuna risposta. Raccolse i fogli dove i ragazzi avevano annotato a penna il numero totale dei sondaggi portati a termine e fece a mente una rapida media.
«Ok, domani cerchiamo di far meglio. Buona serata a tutti».
Nessuno fiatava, nessuno parlottava in maniera complice, nessuno sapeva che dirsi. Come se una disfatta generale si fosse abbattuta sugli intervistatori, come se si fossero macchiati di un'umiliazione senza tempo. I sondaggisti si avviarono verso l'uscita dello studio in fila e senza desideri, se non quello di non tornare mai più a fare quel lavoro tanto pesante quanto mortificante. Ma si diceva sempre così, poi i più deboli e i più menefreghisti tornavano sempre, per i soldi, per quei sei euro e quindici centesimi all'ora. Sentirsi incapace di eseguire un lavoro tanto elementare era stata una vera mazzata morale per Sole, metteva a dura prova l'autostima che già le risultava difficile da mantenere nelle situazioni di normale amministrazione.
Fuori dall'ufficio gli intervistatori si ritrovarono nel più classico dei cerchi umani. Un cerchio di estranei accomunati solo dal decadimento logico.
«Ma sì freghiamocene, è solo un lavoro. Lo facciamo solo per i soldi, no?» disse uno dei due maschi del gruppo, forse lo stesso tizio che poco prima le aveva suggerito di imbrogliare. Sole annuì, non si accese una sigaretta come fecero tre o quattro di loro, ma cominciò a masticare nervosa una gomma alla menta glaciale. Le sigarette costavano, avrebbero inciso troppo nel bilancio e non era il caso di farsi tornare quel vizio dispendioso.
«Qualcuno vuole bere qualcosa?» propose una ragazza a caso, una di cui nessuno ricordava il nome.
«No grazie, sennò perdo l'ultimo autobus e arrivo a casa alle undici» rispose una signora con la permanente rilassata e una ricrescita evidente. Se ne andarono tutti, stanchi e affamati.
Sole mogia e nervosa si avviò verso la sua bicicletta, ma com'era possibile non riuscire a portare a termine quei sondaggi? Perché nessuno le rispondeva?
«Hai imbrogliato? Ci sei riuscita?»
La ragazza si girò e finalmente associò la voce al maschio giusto. Molto carino viste le brutture che si trovavano in quei luoghi senza speranza, dimenticati dal dio dei contributi ed evitati da chi poteva permettersi di dire di no. «Qualcosa sì, ma non troppo. Per te non è la prima volta qui, vero? Sei un veterano?»
«Veterano no, ma ogni tanto quando chiamano dico di sì. E' una rottura di palle, ma me ne frego. Non sono un sondaggista, lo faccio qualche volta e basta»
«Sei disperato anche tu? Per quello sei qui?»
«Non sono sull'orlo del suicidio no, ma non ho un lavoro fisso. Ogni volta dico che non tornerò più, ma.. tanto per tirare su qualcosa, per dare una parvenza di normalità alla vita, per avere un alibi».
Sorrise e aspirò dalla sigaretta soddisfatto e cosciente di qualcosa che poteva capire solo lui: «Comunque non essere così giù, è solo un lavoro di merda» ribadì.
«Sì lo so, ma sono stanca di fare sempre le stesse cose inutili e deprimenti»
«Sole, giusto?»
La ragazza annuì.
«Vuoi uno spritz?»
Sole mise le mani nella tasca posteriore dei jeans, era uscita di casa con cinque euro: «No, grazie, non..»
«Devi scappare anche tu? Perdi l'ultimo bus per Marte?»
«No, non è quello, abito un po' più vicino, ma...»
«Offro io naturalmente»
«No, non è quello»
«Devi andare a fare un altro lavoro sfigato o per stasera hai finito?»
«Ok, va bene. Scusa io non mi ricordo mai i nomi, tu sei?»
«Io, io sono.. Andrea» rispose distratto, sbirciando nervosamente il cellulare. Parlarono per una buona mezz'ora dei sondaggi, delle risposte telefoniche più assurde, dei colleghi, della capa e delle precedenti esperienze lavorative. Entrambi vivevano in città, lui ancora con i genitori e lei da sola in un piccolo appartamento a dieci minuti di bicicletta da lì. La tensione si sciolse un poco, il volto della ragazza tornò a essere più rilassato. Lui invece era veramente molto, molto carino, pensò Sole fissando il ghiaccio che si scioglieva nel bicchiere mentre lo ascoltava. Le sembrava impossibile che le fosse piovuto dal cielo un incontro piacevole quella sera.
«Senti io adesso vado, la mia ragazza mi aspetta al semaforo. Domani ti trovo?» le chiese.
«Credo di sì».
Andrea, assorto in qualche pensiero ignoto, si aprì una lattina di Redbull, ne bevve un lungo sorso e salutò la ragazza con lo sguardo già distante anni luce da lì. In fondo cos'era accaduto? Solo che un ragazzo carino e simpatico le aveva parlato per qualche porzione di tempo. Fece spallucce, si diresse verso la bicicletta e tolse il lucchetto, altro evento fortunato quella sera: non le avevano rubato il mezzo. Pedalò veloce verso casa senza accendere i fanali, andando su è giù per i marciapiedi e le piste ciclabili interrotte. Anche quella giornata era finita per fortuna, ma non poteva continuare a perdere giorni così, doveva decidersi a cambiare rotta, doveva fare qualcosa che desse un senso a quella sua pallida e vacua esistenza. Da domani, pensò, da domani si cambia.

L'indomani Sole si ripresentò ai sondaggi con una maglietta più carina, i jeans più nuovi e molto mascara nero sulle ciglia nonostante per ore avrebbe solo fissato uno schermo e parlato al telefono con perfetti sconosciuti arrabbiati con lei a prescindere dalle sue intenzioni.
Dopo quattro estenuanti ore di delusioni, ire funeste e umiliazioni a profusione di nuovo tutti gli intervistatori scesero le scale in fila indiana e in silenzio, ritrovandosi ancora una volta in cerchio, più sfatti, più nervosi, più fumatori e con una sondaggista in meno rispetto al giorno prima. «Meno una» azzardò Sole con ironia guardando Andrea, compagno di sondaggi falsificati.
Il ragazzo le sorrise di rimando mentre gli altri allontanandosi mugugnarono qualcosa sull'umidità, sulle interviste impossibili e sulla magra frequenza degli autobus in fascia notturna.
«Spritz?»
«Solo uno? Ok, ma offro io stasera»
«Ma va, mi hanno pagato un lavoro che ho fatto tempo fa, possiamo permetterci anche un tramezzino»
«Meglio ancora» sorrise la ragazza guardandolo negli occhi, cercando di sfruttare il potere del mascara extra chic&black, allungante e incurvante. Dopo circa quaranta piacevolissimi minuti ad Andrea arrivò il messaggio fatale che decretava per Sole la fine dei festeggiamenti serali. Il rituale dello spritz continuò per tutta la settimana lavorativa, tanto che al sabato alla ragazza mancò abbastanza quell'incontro così piacevole. Si sentiva strana, nervosa e impaziente che fosse già lunedì, ma lunedì sarebbe stato anche l'ultimo giorno dei sondaggi. Le piaceva parlare con quel ragazzo, lo trovava interessante, soprattutto rispetto alla media degli sfigati che incontrava di solito. Lui sembrava provenire da un altro mondo, il pianeta dove probabilmente tenevano nascosti i ragazzi carini e brillanti.

Ultime quattro ore di telefonate farcite di insulti e di dichiarazioni d'odio, altra fila indiana silenziosa giù per le scale, conseguente cerchio umano sempre più demoralizzato e conclusive proposte di rivedersi senza un effettivo interesse.
«Senti Andrea, non pensare male, ma mi lasci il tuo numero? Così in caso di sondaggi ci sentiamo»
«Ti lascio il numero, ma non sentiamoci solo per i sondaggi»
«Sai come vanno queste cose. Vedrai che tra un po' di settimane faremo finta di non vederci per strada, tipico di questa città»
«Ma va. Però adesso devo andare» disse guardando l'orologio «c'è la mia..»
«Sì, la tua fidanzata che ti aspetta».
Andrea se ne andò così, con un sorriso sincero, con la promessa di ritrovarsi, con una lattina di liquido energetico in una mano e con una sigaretta nell'altra. Sole lo guardò allontanarsi verso quel maledetto semaforo. Non era riuscita a sbilanciarsi di più, era stata solo se stessa e non era bastato a trattenerlo. Non pioveva e non c'era la nebbia, quindi non fu nemmeno un addio con condizioni atmosferiche ideali.
2

«Pliè, pliè. Pancia in dentro. Dritte con la schiena, più dritte con la schiena, giù con le spalle, le spalle! Il mento, su il mento».
Benedetta non ce la faceva davvero più, aveva i crampi per la fame, i piedi doloranti e la mente infuocata.
«Altri cinque minuti e poi alla Pesa» ordinò l'insegnante di danza, cattivissima e temutissima, con i capelli perennemente raccolti in un perfetto chignon, il ventre piatto e lo sguardo crudele. Era soprannominata da tutte le allieve: Signorina Rottermeier, in segreto e in ricordo della famigerata istitutrice di Clara, amica sfortunata di Heidi, la dolce bambina montanara.
«E' giorno di Pesa?»
«Sì»
«Oddio, ieri era il compleanno di mia mamma, ho mangiato il tiramisù»
«Il tiramisù?»
«Ma era un anno che non lo mangiavo, mi faceva tanta voglia» rispose la ballerina coprendosi il volto con le mani per la disperazione.
«Preparati allora» le dichiarò con gravità la compagna.
La Pesa era la temutissima bilancia, il giorno di Pesa era il giorno del giudizio settimanale per tutte le allieve della scuola di danza classica più esclusiva della città. Benedetta cominciò a tremare come una foglia, uno spietato rimprovero le sarebbe arrivato di sicuro, inoltre, ancora una volta, rischiava di non poter partecipare alle selezioni per lo stage estivo. Tutta colpa della sua fragilità, della sua dannata debolezza: il cibo.
La sera prima aveva ingurgitato una piccola fetta di tiramisù, si era lasciata andare senza ricorrere ai soliti trucchetti, senza vivisezionarlo in piccoli pezzi, senza nasconderlo nella spazzatura. Ma non poteva permetterselo, non lei.
Erano lontani i tempi in cui riusciva a digiunare per un giorno intero, aveva decisamente perduto la sua rinomata determinazione. Che stupida, che stupida, si ripeteva nella testa mentre avanzava in fila verso la Pesa. Lo chignon ormai non le reggeva più, si stava disfacendo come la sua vita, come il suo giro vita. Non poteva concedersi di pesare quarantuno chili. Si asciugò il sudore sul viso per tentare di eliminare qualche milligrammo. Le mani le tremavano, il volto era sempre più pallido ed emaciato, gli occhi azzurro spento gridavano pura paura. Poi la speranza improvvisa: alla Pesa era rimasta la signorina Carla, quella buona, quella che se poteva aiutava, toglieva grammi, copriva ritardi, non gridava orrori ed errori all'intera Scuola di Danza quando qualcuna sbagliava un accento, un passo.
«Dai Benedetta. Tocca a te, sali». Per infonderle coraggio le poggiò delicata una mano sulla schiena, la ballerina si ritrasse d'impulso, non era abituata al contatto fisico con gli estranei. La signorina Carla fissò la bilancia, il peso, picchiettò nervosa la penna sul quaderno dove si annotavano i grammi e poi guardò impassibile Benedetta.
«Avanti la prossima. Dopo passa da me però» sussurrò alla ballerina.
«Un attimo. Un attimo che mi perdo tutta la Pesa settimanale sennò».
La signorina Carla cercò di agevolare l'uscita di scena di Benedetta sospingendola con grazia, intimandole di andare a cambiarsi in spogliatoio, e di corsa.
«Un attimo, torna indietro».
La ballerina si arrestò e guardò atterrita l'assistente che cercò con un estremo colpo di coda di coprire la disonorevole colpa: «Abbiamo già fatto con lei»
«Per scrupolo, mi sembra più rotonda»
Rotonda. Pesava in media quaranta chili per 1.60 di altezza, rotonda poteva sembrare un'affermazione esagerata per tutto il resto del mondo.
«Sali Benedetta, prego, è importante rispettare un certo rigore, lo sai».
La ragazza iniziò a mordersi il labbro inferiore e a inspirare a singhiozzo piccole bolle d'aria, non voleva piangere, non se lo poteva permettere lì davanti a tutte. Le sue compagne la reputavano una sfigata, una debole, l'insegnante un soggetto troppo fragile in un ambiente tanto rigido, la mamma un delicato e complicato caso clinico, nel vero senso della parola. Il gruppo di ballerine non fiatava, si limitava solo a mantenere la posizione: testa in linea, schiena dritta, pancia in dentro e busto allungato. Sembravano statue di gesso anemiche, diafane, immobili e rigide, con i nervi costantemente tesi. Apparivano belle e perfette, da lontano. Benedetta salì sulla Pesa.
«Non muoverti. Dopo sistema lo chignon. Quarantuno chilogrammi. Quarantuno e due, per l'esattezza» decretò l'insegnate, quasi offesa, sicuramente disgustata. Benedetta inglobò le labbra.
«Mantieni la posizione. Non è possibile, capisci? Vuoi fare lo stage la prossima estate? Finalmente?».
Benedetta avrebbe solo desiderato sparire, lo sguardo dell'insegnante sarebbe stato insostenibile per chiunque, anche per chi avesse pesato i vanagloriosi trentotto chili.
«Non va bene così, lo sai, il tuo peso oscilla, continua a oscillare. Non capisco se ti interessa la danza o vieni qui a perdere tempo. Non tutte possono permettersi questo corso, ma molte vorrebbero farne parte, magari ballerine più meritevoli di te. Mantieni la posizione, testa in linea. Ti consiglio di riflettere e di prendere in considerazione eventuali altri corsi più ludici. Latino americano, danza moderna.. Serve disciplina, rigore. Adesso passa dalla psicologa, ti aiuterà. Mantieni la posizione, spero di essere stata chiara. Vai pure».
Nessuna ballerina riprese a respirare.
Benedetta si rifugiò nello spogliatoio ritrovandosi a tradimento di fronte allo specchio: era rotonda in effetti ed era solo colpa sua. Doveva diventare una ballerina, era il suo sogno, la sua unica alternativa.
Si sfilò le scarpette rosa, si massaggiò i piedi maltrattati e sanguinanti, si infilò i jeans e filò via alla velocità della luce. Non aveva nessuna voglia di andare dalla psicologa, una signora antipatica, amica della Rottermeier, che le consigliava lassativi e diete a base di acqua calda e limone. Ma non poteva evitare la seduta, lo studio era proprio affianco alla scuola e il giorno dopo avrebbe dovuto consegnare il tagliandino di presenza all'insegnante.
Bussò alla porta, con lo stomaco ancora contratto, convinta di dover passare i prossimi cinquanta minuti ad ascoltare le potenzialità dei purganti naturali e le virtù del limone in accoppiata con l'acqua calda.
«Avanti» acconsentì una voce maschile.
La ragazza si destò dalla rassegnazione e controllò la targhetta sulla porta, non aveva sbagliato piano o studio, ma la voce non corrispondeva alla solita noiosa psicologa.
«Prego, avanti» propose ancora la voce sconosciuta.
Benedetta si fece coraggio, esausta e senza alcuna volontà varcò la soglia dello studio.
«Buongiorno, sono una allieva della Scuola di Danza, cercavo la psicologa» chiese continuando a mantenere la posizione.
«Ciao, la sostituisco per qualche tempo, spero non sia un problema per te, vuoi accomodarti?».
Benedetta si accomodò, contrasse i muscoli e raddrizzò la schiena.
«Sta pure comoda, rilassati, sono Alberto, piacere» si presentò e le porse la mano.
Benedetta, senza entusiasmo, gli allungò la mano ossuta pronta a fingere di interessarsi alla solita lezione sull'aspro succo dell'agrume giallo.
«Tu?»
«Cosa, scusi?»
«Dicevo, che puoi stare pure comoda e che sono Alberto, tu invece sei?»
«Io?»
«Sì, con chi ho il piacere di parlare a vuoto?» le chiese mostrandole un sorriso d'incoraggiamento.
«Io sono Benedetta e sono qui perché l'insegnante di danza mi ci ha mandato» rispose tutta d'un fiato, quindi con discreto interesse, domandò: «Che è successo alla psicologa?»
«Si è rotta una gamba, ne avrà per un bel po', due mesi credo. Come mai l'insegnante ti ha mandato qui?».
Benedetta dovette ammetterlo, non vedere quella donnetta le aveva fatto provare una briciola di sollievo nel mezzo di quell'ennesima giornata da dimenticare. «Non lo so» rispose di getto, poi si corresse: «Il fatto è che sono ingrassata e devo capire se voglio davvero fare la ballerina» ammise con amarezza, rivelando i suoi occhi azzurro spento.
«Sei ingrassata?» lo psicologo piegò la testa verso sinistra per osservare meglio Benedetta: «Eri più magra di così? Quindi è un bene se sei ingrassata, giusto?».
La ballerina sgranò gli occhi e credette di non aver compreso bene la domanda.
«No, cioè, ho un problema col peso, non dovrei ingrassare, dovrei restare entro i quaranta chilogrammi al massimo, ma sono quarantuno e due e non è accettabile per una ballerina» spiegò con determinazione, rammarico e delusione.
«Perché?»
«Come perché?» rispose Benedetta con un filo di voce. Perché tutte quelle domande? Perché invece non le parlava di purghe? Perché non le consigliava di impegnarsi di più o di fare più addominali?
«Perché non sarebbe accettabile quarantatré o cinquanta chili magari?» proseguì lo psicologo. Lo chiese con estrema pacatezza per non urtare la sensibilità ballerina, cominciava ad avvertire la fragilità della ragazza, la chiusura e la timidezza che la inchiodavano.
Benedetta scuoteva la testa: si era mai vista una ballerina di danza classica obesa?
«Qui nella tua scheda c'è scritto che con la psicologa avevate iniziato a parlare di diete e di prodotti naturali, è così?».
Lo psicologo si grattò la testa con la punta della penna, continuò a leggere in silenzio la scheda della ragazza attendendo senza fretta una risposta. In sintesi si diceva che la ballerina aveva un disturbo del comportamento alimentare, alternava da anni fasi di anoressia nervosa con qualche caduta nella bulimia, ed era già stata ricoverata in una clinica specializzata. Non era ancora guarita, ma era in fase di miglioramento. Persistevano però problemi nel relazionarsi con gli altri e nell'affrontare con tempra la disciplina della danza. Nel frattempo Benedetta raccolse coraggio e voce: «Con la dottoressa parliamo del succo di limone, fondamentalmente».
Lo psicologo assunse un'aria interrogativa, mimò un sorriso per rendere il tutto meno angosciante e assurdo e le chiese di spiegarsi meglio.
«Sì, di come mi devo depurare e di come devo mangiare meglio» inspirò rassegnazione col naso e continuò «e meno, in pratica». Aggiustò la posizione e constatò con mano esperta che il suo chignon stava ormai inesorabilmente collassando su se stesso.
«Senti, se ti va potremmo vederci ancora, così approfondiamo, parliamo un po'»
«Di cosa? Gliel'ha detto l'insegnante di farmi venire qui ancora? Dice che c'è speranza per me?» chiese allarmata.
«Speranza? Per cosa?». Lo psicologo era assolutamente fuori da ogni logica ballerina, inoltre, era solo al suo secondo incarico di supplenza, non era certo un veterano della materia.
Benedetta rispose imbarazzata: «Forse non sono all'altezza della Scuola di Danza, devo migliorare o...»
«Ok senti, facciamo così, se vuoi ci vediamo tra una settimana così ci ragioniamo su. Di solito mi occupo di ragazzi con problemi diversi e...».
La ballerina recuperò la borsa poggiata a terra, lo guardò senza fiducia e salutò in maniera educata. Poi, riportandosi ancora una volta lo chignon in equilibrio se ne uscì con un'ultima, ma fondamentale richiesta: «Mi servirebbe il tagliandino, potrebbe firmarlo per favore?»
Lo psicologo firmò il rettangolino di carta che attestava la presenza nello studio e glielo porse senza obiezioni.
«Grazie mille» gli disse rincuorata piegando il foglietto in due.
Camminando verso casa provò a rilassare lo stomaco costretto dalla costante morsa nervosa che la irrigidiva da tempo immemore, da quando aveva cinque o sei anni. Quel nuovo psicologo non le aveva ordinato di dimagrire, di spremere limoni o di impegnarsi maggiormente nell'attività fisica; Benedetta si sentì quasi sollevata e non le dispiacque affatto quella sensazione quasi sconosciuta.

«Che stai facendo papà?»
«Niente Bene, sto guardando un po' di robe su Facebook»
«Cosa?» gli chiese appoggiando i gomiti sulla scrivania.
«Le solite cose che mettono gli altri: il cane che dorme, tizie in posa da ragazze facili, posti fighi, foto di pizze, foto del ca...»
«Ti è arrivato un messaggio»
«Che?»
«Sì, lì vedi? C'è un messaggio.»
Il padre si affrettò, fingendo ignoranza in materia, a uscire dal suo profilo: «Non so, boh, sarà pubblicità»
«Che nascondi?»
«Niente Bene, che devo nascondere?» ribadì con una leggera sfumatura di imbarazzo. «Com'è andata a danza? Hai mangiato qualcosa? Prendiamo la pizza? Mi è venuta fame, a te?»
Benedetta sollevò le spalle senza rispondere nulla, tanto erano sempre le solite domande di routine.
«Non lo diciamo alla mamma, è di là che guarda un telefilm per donne frustrate»
«Shh che ti sente!»
Baciò la sua bambina sulla fronte e Benedetta lo abbracciò adorante, non si sarebbe mai voluta staccare da lui, la sua unica fonte di amore accecato e incondizionato. Si staccò quasi subito però, per non fargli percepire il rilevante livello di magrezza.
«Ti allontani eh, sei grande ormai per abbracciare il tuo papà. Quanti ragazzi ti vengono dietro adesso? Tre? Quattro?»
«Che ragazzi, nemmeno uno, non sono il tipo che piace ai ragazzi io»
«Certo Bene, perché i ragazzi guardano quelle vestite da troiette, tu invece sei troppo raffinata per loro»
«Ma va, sono solo una sfigata che fa danza quattro ore al giorno, cinque giorni su sette»
«Bene» le prese il viso fra le mani «tu nemmeno lo sai quanto sei bella, però adesso ci prendiamo la pizza, così mangi qualcosa e metti su un chilo»
«Non posso papà ti prego, poi a danza non hai idea di quanto mi stressano, di quante parole mi dicono»
«Ti stressano? Hai venticinque anni, che vuol dire che ti dicono parole?»
«Eh se ingrasso, lo sai..» rispose rassegnata, sfuggendo dalle sue mani.
«Non è che siete alla Scala o all'Opera, siete solo una scuola di danza come tante, solo che è piena di fighette del centro che se la tirano, con i genitori medici e avvocati che.. Va bene una margherita, amore?»
Il padre si innervosiva sempre quando ascoltava certi discorsi sulla danza, sulla disciplina esagerata o, peggio ancora, sull'ossessione del controllo sul peso. Benedetta sospirò riflettendo sulle calorie della pizza, sui ragazzi inesistenti e su suo papà che era l'unica persona che la faceva stare bene.
Alessandro, il padre, invece lesse velocemente un messaggio arrivato da pochi minuti nel cellulare. Pensò che non aveva voglia di rispondere, che aveva fame, che Benedetta era dimagrita ancora e che una pizza, comunque, ci stava sempre bene. Dopo aver mangiato uno spicchio di pizza, dopo aver raccontato la giornata al papà o almeno la versione di quello che si poteva raccontare senza farlo infastidire, Benedetta si recò dalla mamma per la buonanotte. Le si sedette affianco sul divano giusto un minuto, non voleva disturbarla, non voleva confrontarsi con lei, sempre così imperturbabile e perfetta. «Ma tuo papà ha ordinato la pizza?»
«Sì»
«Ma gli hai detto che avevi già mangiato il tacchino e le verdure bollite?»
«Sì»
«Ma che testa ha? Quando maturerà? Crede ancora di essere un ragazzino. Lo vedi? Fa il figo in giro con i suoi tatuaggi, con la moto, con le sue T-shirt, con i suoi quarantaquattro anni. Che ti ha detto?»
«Niente»
«Niente? Avete parlato due ore di là. Sai che c'è lo stage con i russi quest'estate, forse è la volta buona. Benedetta cerca solo di mantenerti in forma, non devi dimagrire mi raccomando, ma devi restare così, così sei perfetta»
«Mamma ne ho mangiato solo una fetta e ho tolto la mozzarella»
La madre le accarezzò il viso e le sorrise: «Non è quello, è che arrivi stanca, appesantita. Vai a dormire adesso, buonanotte amore».
Benedetta si ritirò in camera, finalmente anche quell'inutile e straziante giornata era giunta al termine. Aveva solo venticinque anni, ma se ne sentiva dieci per come la trattavano i genitori e sessanta per quanta sofferenza fisica e morale aveva sopportato fino a quel momento. Si guardò allo specchio: grassa per l'intera Scuola di Danza, ma spigolosa e piatta per il resto del mondo profano. Aveva lunghi capelli biondi naturali, grandi occhi azzurri color cielo uggioso e una grazia che ricordava tempi antichi. Ma non si piaceva. Così magra non piaceva ai ragazzi e se al contrario fosse ingrassata non avrebbe più avuto chance per rimanere nella Scuola di Danza, l'unico posto al mondo dove ancora l'accettavano, per quanto poco o per quanto la disprezzassero. Appena spense la luce arrivarono i soliti, snervanti e devastanti sensi di colpa: forse doveva vomitare la pizza? Forse doveva sforzarsi e fare cinquanta addominali? Ma perché poi si ostinava ad andare a lezione? Non le piaceva nemmeno più, lo doveva ammettere con se stessa. Le sue compagne erano quattro stecchini rinsecchiti con gli occhi appannati e tristi, l'insegnante si credeva un'étoile e invece era solo una donna acida, una fallita con i capelli perennemente raccolti in uno chignon, lucido e rigido per trecentosessantacinque giorni all'anno. L'indomani l'avrebbe pesata ancora, visto l'insuccesso del giorno e ancora l'avrebbe umiliata davanti a tutte. Le avrebbe chiesto di tirare in dentro la pancia, di allungare il collo e di alzare il mento. Non sarebbe mai diventata una ballerina professionista, inutile crederci ancora. Il papà di sicuro ne sarebbe stato a dir poco sollevato, la madre invece non avrebbe accettato facilmente quel fallimento. Era lei lo scoglio più arduo da superare, la mandava a danza da vent'anni, si era costruita un giro di amicizie attorno al mondo del balletto, non le avrebbe permesso di mandare tutto all'aria per un'ingrata debolezza.
Benedetta non riusciva ad addormentarsi quella notte con tutti quei pensieri in testa, con tutti quegli ostacoli da affrontare: il caos e l'ansia le impedivano di mettere in ordine le idee e di tranquillizzarsi. Provò a leggere un libro sull'arte medioevale, ma se ne appassionò tanto che la stanchezza le passò completamente. Si mise a contare fino a cinquanta, respirò a fondo cinque volte e provò con varie tecniche di rilassamento, niente. Il risultato fu disastroso: occhi sbarrati che fissavano il buio, gambe che si agitavano per il nervoso e lo stomaco che bruciava per l'agitazione. L'unica alternativa, immediata ed efficace, era andare in bagno e vomitare in silenzio senza farsi scoprire. Era la sua famigerata, e frequentata, ultima spiaggia, solo in quel modo si sarebbe svuotata dai sensi di colpa e dalle inquietudini che le bombardavano la testa senza sosta. A piedi nudi, senza far rumore, leggiadra come solo una ballerina di danza classica poteva essere, raggiunse la tazza, si raccolse i lunghi capelli biondi e vomitò senza grazia la cena. Nessuno se ne accorse. Contò solo fino a settanta prima di addormentarsi, vergognosa e rasserenata, coprendosi con la mano la sua pancia inesistente.
3

«Ciao, sono Andrea, vieni al mare oggi?»
«Andrea? Al mare? Ma che ore sono?» chiese Sole avvolta nel buio, senza sapere davvero se fossero le tre di notte o le undici di mattina.
«Sono le 9.30 del mattino, il sole splende e io devo andare al mare per un lavoro»
«Hai trovato lavoro?»
«Ne parliamo dopo. Ce la fai a essere pronta tra mezz'ora?»
«No»
«E dai, che devi fare?»
Depilarmi qualsiasi parte del corpo, pensò Sole.
«Mandami l'indirizzo che ti passo a prendere verso le dieci, a dopo».
Sole fissò lo schermo del cellulare, si sedette sul letto e si mise a riflettere: che significava quella telefonata? Ma non c'era tempo per una risposta razionale o per una meditazione approfondita, doveva estirpare i peli dal suo corpo e l'operazione richiedeva la massima concentrazione. Sbirciò fuori dalla finestra, la giornate era magnifica, respirò un rivolo di aria fresca e si guardò i piedi, doveva anche mettersi lo smalto. Mancavano solo nove minuti alle dieci e l'epilatore elettrico lavorava senza tregua. Doccia veloce, stando attenta a non bagnare i capelli e smalto nero applicato. Tre minuti alle dieci per la decisione fondamentale che forse avrebbe decretato il risultato della giornata: la scelta del costume. Svuotò sopra al letto la borsa di tela contenente i bikini. Costume a fascia viola sopra e slip nero. Fascia leggermente imbottita, la prima impressione era quella che contava davvero. Jeans neri strettissimi, canottiera nera e infradito dello stesso colore. Le dieci, anche le campane in lontananza lo sottolineavano. Si truccò gli occhi castani con una matita nera e abbondò col mascara fregandosene del caldo e del sudore che probabilmente avrebbero sciolto senza pietà i suoi abbellimenti.
Dieci e sette, ultimi ritocchi. Sole si guardò allo specchio abbastanza soddisfatta: per essersi svegliata solo da mezz'ora il risultato non era dei più disastrosi. I capelli neri come la pece, dalle sfumature quasi blu, erano raccolti in una treccia laterale, la frangia tagliata a metà fronte sembrava rimanere piatta e il brufolo che le era spuntato sul mento era stato abilmente coperto con un correttore. Grazie a Dio Andrea non era puntuale. Dovevano essere passati almeno venti giorni da quel lunedì, il lunedì del presunto addio ai sondaggi serali. Gli aveva scritto solamente una volta, c'era stato uno scambio di messaggi carini, simpatici, arguti, ma poi nulla di concreto e Sole decise di gettare la spugna, capitolo chiuso.
«Scendi?» le chiese al telefono.
«Arrivo» gli rispose con le chiavi in mano.
Il cuore le batteva forte. Poteva essere un sintomo d'innamoramento? Prese la borsa e chiuse la porta.
Andrea la stava aspettando a cavallo di una moto: «La devo portare a un amico che abita vicino al mare. Ho pensato che magari ti andava di accompagnarmi»
«E' una bella idea» e perché hai pensato a me? Si chiese Sole, ma le uscì solo un misero: «Che moto è?»
«E' una Triumph. Sali e resta attaccata» le suggerì passandole un casco nero. Realizzò solo in quell'istante che lo avrebbe potuto abbracciare per tutto il tempo, che sarebbe stata appiccicata a lui per tutta la durata del tragitto, che indossare infradito in moto non era il massimo e che non aveva ancora preso il caffè quella mattina. Per trenta minuti si strinse a lui, cercando di mantenere un certo contegno nella postura e di maledirlo solo mentalmente per la velocità di crociera esagerata. Quando la moto si fermò la ragazza aprì gli occhi: di fronte a lei si palesò il mare scintillante, calmo e infinito. «Bellissimo» sospirò e annusò profondamente l'aria densa di salsedine che le riportò alla mente sensazioni piacevoli, ricordi profumati di sabbia e crema solare.
«Senti io porto la moto al mio amico, tu mi aspetti in spiaggia? Ci metto mezz'ora credo, più o meno, se tutto va bene»
«Se tutto va bene?»
«Sì, insomma, non credo di rimanere molto lì, ci vediamo tra un po'».
Sole si avviò verso la spiaggia e decise di non dare importanza al fatto che Andrea l'avesse mollata sul più bello, in fondo si trattava di lavoro. Fece pochi passi e affondò i piedi nella sabbia calda e soffice. Per qualche minuto restò seduta e immobile, assorta nei suoi pensieri a fissare le onde, poi sbadigliò appagata, distante dagli annunci di lavoro infruttuosi e frustranti.
Quando si svegliò notò che accanto a lei vi era steso un telo verde, si strofinò gli occhi e si guardò attorno, poi lo vide. Andrea era in acqua e parlava al telefono con qualcuno. Sembrava un po' nervoso e agitava le mani per aria. Qualche parola scavalcava le onde e arrivava fino a riva, dove era distesa lei in ascolto. «Non è stato semplice questa volta. No, non sono in città. Ok. Per oggi è meglio così». Chissà, magari stava litigando con la fidanzata, magari si stavano lasciando. Magari frena la fantasia, si redarguì Sole.
Andrea era sempre misterioso, impenetrabile e forse proprio per quel motivo Sole ne era rimasta un bel po' affascinata. Senza tralasciare il fatto che era molto carino e simpatico. La maledizione dei ragazzi stronzi, l'aveva definita. Certo, lo conosceva da poco, non sapeva nulla di lui a parte il fatto che aveva una ragazza, che era un precario come lei e che ogni volta se ne andava sul più bello. E chissà com'è la fidanzata, continuò a meditare Sole, di sicuro bella, magari bionda, un po' misteriosa pure lei, di quelle un po' dannate, di quelle irresistibili, di quelle a cui basta uno sguardo per sedurre. E di certo con un lavoro figo, tipo stylist, fotografa di moda o di servizi alternativi, reporter di guerra magari. E invece, dove voglio andare io? Precaria, banale, senza particolari attitudini. Con sto nome poi, Sole.
Lei che invece voleva sparire nella notte scura.
«Ben svegliata»
«Ben tornato. Si sta bene qui, non c'è quasi nessuno, come l'hai trovato questo posto?»
«E' il mio ritiro speciale quando voglio starmene tranquillo, lontano da tutti». Andrea sospirò e guardò in direzione del mare senza vederlo davvero. Poi si girò verso la ragazza e sembrò notarla per la prima volta quella mattina, le sorrise e si tolse gli occhiali da sole rivelando due occhi così verdi che avrebbero fatto ribollire di invidia il mare Adriatico. Sole sentì lo stomaco attorcigliarsi su se stesso e dichiarare vendetta all'amore. Dopotutto, pensò, aveva scelto di starsene tranquillo e lontano da tutti con lei, non con un'altra.
«Posso farti una domanda?»
«Vai» le rispose da sdraiato.
«Come torniamo a casa, a nuoto?»
«Siamo appena arrivati e pensi già al ritorno?»
«Io potrei stare qui tutta la vita, non ho niente da fare»
Andrea sorrise e si accese una sigaretta: «Magari» le rispose.
E poi iniziarono a parlare del passato, delle storie finite male e delle amicizie in comune, ma solo quelle alla lontana.
«Posso farti un'altra domanda?»
«Vai» rispose Andrea.
«Perché hai chiamato proprio me stamattina?»
«Gli altri mi avevano detto di no»
Sole si sentì avvampare di rabbia: «Ma sei proprio stronzo! Puoi anche mentire, dire una bugia carina»
«Il mondo è pieno di bugie, ne raccontiamo troppe»
La ragazza girò lo sguardo dall'altra parte per nascondere la delusione, inoltre si era imposta di trovare una frase ad effetto per spegnere la presunzione di quel moro dagli occhi verdi, ma ancora prima di mettere insieme due parole di senso compiuto si sentì toccare un braccio: «Ma non è vero, ti pare?»
Sole sorrise senza voltarsi, sollevata e rincretinita.
«E' che sei il primo nome della rubrica e mi hai detto di sì subito»
«Ma sei proprio stronzo allora!».
Prese la bottiglietta d'acqua naturale e cercò di annaffiarlo dal suo posto con scarsi risultati. Lui le afferrò i polsi e la sollevò di peso, se la mise sulle spalle come un sacco di patate e la gettò in acqua per vendicarsi. Quando la ragazza riemerse entrambi scoppiarono a ridere, contenti di essere lì in quel momento, senza stress, senza obblighi sociali, senza persone sgradite attorno. E poi lei guardò adorante lui senza accorgersene, senza filtri: da così vicino, in costume, con i capelli bagnati e le ciglia a mazzetti, un po' abbronzato e abbagliante per il riflesso del sole sulla pelle bagnata era bello da matti. Dunque lei non poté far altro che chiudere gli occhi e aspettare che il fato si impossessasse dei loro gesti e delle loro esistenze. Ma l'unica cosa le riuscì di fare fu di starnutire lì in mezzo al mare immenso, davanti al suo immaginario amore ancestrale. Se anche ci fosse stata una possibilità su due di baciarsi, Sole se la giocò così. Lui rise ancora senza trattenersi e si tuffò verso l'orizzonte infinito come uno stronzo di delfino ammaestrato. Lei tornò a riva, calciando le onde e maledicendo la salsedine: «Che sfiga» brontolò.
Erano le sei di sera ormai, l'ora più piacevole per stare in spiaggia, i due amici chiacchieravano ancora sorseggiando una birra chiara e mangiando patatine fritte dal sacchetto. «Senti, che dici ritorniamo a casa? L'autobus dovrebbe passare tra un quarto d'ora, ho controllato»
Sole annuì, cercò un cardigan di cotone color corda all'interno della borsa e lo indossò, per quanto volesse continuare a stare mezza nuda per sparare le ultime cartucce di sensualità, la brezza di giugno e la pelle arrossata glielo impedivano. Il ritorno fu più silenzioso del previsto tanto che la ragazza si addormentò, casualmente, sulla spalla di Andrea indaffarato a scrivere messaggi col cellulare; messaggi che lei non riuscì a decifrare dal suo posto privilegiato prima di chiudere gli occhi e di rassegnarsi a vivere nell'ignoranza.
Alla stazione delle corriere si salutarono con due bacetti sulle guance, promettendosi di vedersi ancora e di sentirsi presto: ancora una volta quel commiato poteva sembrare un altro classico e scontato addio. Sole restò ferma ad osservarlo mentre si allontanava, lui non si voltò per salutarla ancora o per guardarla un'ultima volta. Queste cose le fanno le ragazze pensò, i maschi non si girano quasi mai, noi vogliamo accaparrarci anche l'ultimo istante, ma per i maschi un ciao è solo un ciao. Fece spallucce e si mise in bocca un chewingum alla menta. Si incamminò verso casa con le caviglie sporche di sabbia tra la gente che aspettava il bus dopo una lunga giornata di lavoro. Si abbottonò il cardigan e incrociò le braccia sopra allo stomaco, il disagio, la vergogna e la rassegnazione di vivere una vita diversa dagli altri la accompagnarono fino a letto quella sera. Comunque, alla fine, Andrea non aveva detto perché aveva chiamato proprio lei per la gita al mare e questo dubbio fu il suo ultimo pensiero della giornata prima di addormentarsi.



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